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Terapia del dolore: quando è importante usarla e perché. Come può migliorare la qualità della vita di tutti i giorni. – Ne parliamo con la dottoressa Cristina Pinna

Intervista di Lorenzo Chierici

Che cos’è la terapia del dolore? A casa serve? Perché le persone associano la terapia del dolore soltanto al percorso di fine vita in caso di malattie incurabili? Durante la terapia, nel caso in cui il paziente soffra di patologie curabili, è possibile arrivare alla guarigione completa senza provare alcuna sofferenza nel percorso di guarigione? Perché, quando una patologia diventa cronica ovvero non si possono curare le cause della stessa, è importante eliminare almeno il sintomo? Abbiamo parlato di questo e di molto altro con la Dottoressa Cristina Pinna, medico chirurgo specializzata in anestesia e rianimazione, che collabora col Poliambulatorio 3C Salute di via Largo Gerra 2.

Perché è importante la terapia del dolore e quando la si usa?

Dottoressa, qui al Poliambulatorio 3C Salute lei si occupa prevalentemente di terapia del dolore. In che cosa consiste e quando diventa importante per il paziente?

“La prima cosa che mi preme sottolineare è la distinzione tra terapia del dolore e cure palliative. Ancora oggi, purtroppo, la terapia del dolore viene considerata dalle persone come sinonimo di “cure palliative”, ossia quei trattamenti che accompagnano il paziente al fine vita, quindi ogni volta che la sentono nominare si fanno il segno della croce. In realtà non è così: all’interno della terapia del dolore c’è anche l’aspetto legato all’alleviare le sofferenze quando si arriva alla fine del nostro percorso, ma questa è solo una minima parte visto che la terapia del dolore la si applica soprattutto, e per fortuna, su pazienti che hanno patologie benigne o che stanno attraversando un momento di sofferenza fisica che limita tantissimo la loro vita di tutti i giorni. Noi cresciamo erroneamente convinti che il dolore debba essere sopportato, ma in realtà il dolore si cura, non si sopporta perché è equiparabile a un qualunque altro sintomo e come tale deve essere trattato. Quindi ci si rivolge al terapista del dolore ogni volta che si ha un dolore acuto o cronico, poco responsivo a terapie che magari il medico di famiglia può avere impostato, nell’obiettivo comune, cioè del medico e del paziente, di arrivare alla risoluzione di questo quadro clinico”.

Quindi la terapia del dolore non cura le cause della patologia, ma cura gli effetti della stessa?

“Di fatto sì: cura il sintomo, non la causa. Mi spiego meglio: la maggior parte dei pazienti che arrivano in un ambulatorio di terapia del dolore sul nostro territorio sono pazienti con un problema alla colonna vertebrale, come ad esempio la sciatica sostenuta da ernia del disco: eliminare un ernia discale è possibile soltanto con un intervento chirurgico che oggi non viene più considerato come la prima opzione del trattamento in quanto esso stesso può essere causa di problematiche e conseguentemente di dolore. La strategia corretta, salvo casi particolari, è conservativa e trova il suo razionale proprio nella terapia del dolore con l’obiettivo di spegnere il sintomo.

L’aspetto psicologico è determinante per poter guarire?

Quindi, da parte vostra, occorre anche un processo di educazione del paziente alla gestione di tutto questo?

“Assolutamente si ed è un processo fondamentale del nostro percorso di guarigione: insegnare al paziente a conviverci, a mettere in atto quelle strategie che gli permettono di tenere a bada e silente la causa che genera il problema. L’obiettivo di togliere il sintomo, però, non è affatto di secondaria importanza, anche perché il dolore è estremamente invalidante per la persona che lo avverte, non solo da un punto di vista fisico, ma anche emotivo e relazionale; si ripercuote spesso anche sulla vita di coppia, sulla vita familiare, sul mondo del lavoro, visto che molte volte il paziente non è in grado neppure di lavorare; si innesca quindi un circolo vizioso che per certi versi aumenta questa condizione di malessere di base. Ecco perché è fondamentale intervenire il prima possibile per interrompere questo meccanismo, riportando il paziente nella condizione di contesto quotidiano più normale possibile”.

Dottoressa, indosso per un attimo i panni dell’avvocato del diavolo: Se cala l’effetto della patologia, non si corre il rischio che non avvertendo più dolore si trascuri la patologia?

“Certo, il rischio è proprio questo: ecco perché è importante educare il paziente, rendendolo consapevole che il problema esiste ed è concreto; la terapia del dolore fa il suo lavoro e ottiene il proprio obiettivo nella maggior parte dei casi, ma il paziente deve essere consapevole del fatto che il problema non è risolto e che quindi c’è una parte di lavoro in più che deve essere fatto dal paziente stesso per arrivare alla guarigione”.

Dottoressa, vi è quindi anche un risvolto psicologico nel dolore?

“Capita tantissime volte. Personalmente cerco sempre di dedicare molto tempo al paziente negli accessi che fa al mio ambulatorio perché il paziente con dolore è un malato particolare ed è un paziente che non dice mai nulla per caso e non fa mai nulla per caso; per cui, porre molta attenzione a questo aspetto emotivo-psicologico è fondamentale per la buona riuscita del percorso. Il dolore, infatti, indebolisce le certezze, anche nelle persone emotivamente più stabili, quindi c’è bisogno di iniziare a lavorare anche da lì. Faccio sempre questo esempio: se in questo momento in cui sto parlando con lei, io avessi mal di testa, non me ne renderei conto perché sarei distratta da ciò che stiamo facendo, ma nel momento in cui finissimo la nostra chiacchierata e mi sedessi qua davanti al computer, da sola, la testa mi scoppierebbe; ciò non significa che prima non avessi il mal di testa, mentre ora mi è venuto: il mal di testa ce l’avevo anche prima, ma non gli ho prestato abbastanza attenzione. Ciò significa che quando una persona ha dolore da tanto tempo vive in un contesto complesso: magari a lavorare si sollevano dei problemi, a casa ci sono delle discussioni perché è difficile anche per un familiare stare a fianco a una persona che ha dolore, quindi chi soffre si trova da solo a gestire questa condizione difficile sino a diventare un problema insormontabile. Porre molto l’accento su questo aspetto aiuta il paziente a seguire un percorso migliore perché lo rende consapevole del fatto che c’è un risvolto emotivo che impatta sulla sintomatologia avvertita e quindi seguire anche questo tipo di percorso migliora sicuramente il risultato finale”.

Applicazioni, tempi e obiettivi della terapia del dolore

Mi immagino esistano vari tipi di approcci terapeutici in terapia del dolore. Ce ne parla un po’?

“Il primo approccio consiste nell’utilizzo dei farmaci. Esistono prodotti di diverso tipo a seconda delle caratteristiche del dolore o del percorso che dobbiamo instaurare. Molte volte, però, solo la terapia farmacologica non è sufficiente a governare sintomatologie complesse; da qui nasce la necessità di ricorrere a procedure infiltrative, ad esempio sulla colonna vertebrale, su punti particolarmente dolorosi, oppure infiltrazioni nelle articolazioni dei vari distretti corporei… per dirne alcune. Tutte queste sono strategie di cura che ci aiutano, in associazione all’uso dei farmaci e alla fisioterapia che è fondamentale, ad ottenere il miglior risultato possibile su quel paziente. Il percorso che si decide di seguire varia ovviamente in base alla diagnosi che viene posta”.

Ci sono situazioni in cui la terapia del dolore finisce e si torna magari alla normalità? Oppure chi la inizia si trova costretto a farla per tutta la vita?

“Dipende. Purtroppo ci sono delle condizioni di dolore cronico e in questo caso, trattandosi di un dolore costante, la terapia antalgica accompagna il paziente per sempre; può variare per cambi di dosaggi o di tipo di farmaco, ma è persistente. Nella maggior parte dei casi, coloro che afferiscono in una struttura territoriali, soffrono un dolore acuto e quindi l’obiettivo è quello di non renderlo cronico; la terapia deve quindi risolvere il problema lenendo il dolore. Quando tale risultato viene raggiunto è anche possibile eliminare il farmaco, magari riducendone i dosaggi fino ad arrivare alla sospensione, ma non è sempre possibile”.

Quali sono i tipo di farmaci che vengono utilizzati nella terapia del dolore?

“La terapia del dolore si fonda sull’impiego di due classi di farmaci: gli antinfiammatori e gli oppiacei. Ad essi si possono associare gli anestetici locali. In molti casi si utilizzano oppiacei, come ad esempio la morfina e i suoi derivati. Ci tengo però a sottolineare che, se è vero ed ovvio che se questi farmaci vengono mal gestiti possono provocare problemi di abuso o di dipendenza, è altrettanto vero che non sono demoniaci: sono soltanto molecole ad elevata potenza che ci aiutano moltissimo nella gestione di dolore di alta intensità: vanno solo gestiti con correttezza e poi ridotti sino alla sospensione quando non son più necessari”. E’ quindi necessaria una stretta collaborazione tra medico di base e lo specialista che li prescrive.

Quali sono le patologie per le quali lei stessa consiglia la terapia del dolore?

“Sono diverse, ad esempio le patologie della colonna vertebrale lombosciatalgia, cervicobrachialgia, artrosi, piuttosto che fibromialgia, herpes zoster, nevralgie periferiche, cefalee… questo per dirne alcune; poi ci sono ovviamente “dolori in esito” tipo esiti neurologici nei pazienti che hanno avuto magari ictus ed emorragia cerebrali, traumi stradali, spasticità e poi esiste il dolore vascolare, ad esempio i pazienti diabetici che hanno le ulcere vascolari, pazienti che hanno dei disturbi della circolazione periferica e ovviamente il dolore di tipo neoplastico, quindi nel malato oncologico. Sul territorio raramente vediamo pazienti con un dolore maligno perché di solito seguono un percorso più complesso e quindi anche se vengono nel mio ambulatorio li indirizzo in strutture ospedaliere di terapia del dolore dove possono seguire percorsi dedicati”.

La terapia del dolore per migliorare la qualità della vita

Quindi i malati terminali affetti da neoplasie seguono il loro percorso in strutture ben definite, predisposte alla gestione del fine vita… Lei quindi cura soprattutto e in particolare modo dolori derivanti da patologie invalidanti che, grazie alla terapia del dolore, non trattandosi di malattie così gravi, consentono al paziente di riprendere una vita normale…

“É proprio così: ecco perché è importante la terapia del dolore, che, ripeto, cura il sintomo, ma non la causa, ma migliora la qualità della vita. Certe patologie sono infatti molto frequenti e molto invalidanti e spesso il malato segue un percorso infinito, un calvario, senza poi arrivare alla risoluzione del quadro quando invece, con una diagnosi precisa, si può mettere in atto un trattamento tempestivo e portare al miglioramento o alla risoluzione del sintomo.
Fondamentale sarà poi il percorso riabilitativo che garantirà al paziente una presa di coscienza e fornirà allo stesso le basi per riprendere un contesto lavorativo e personale pressochè normale con semplici accorgimenti.

La terapia del dolore serve anche in caso di formicolii costanti, fastidi a livello nevralgico e via dicendo?

“Certo, anche in questo caso bisogna capire fin da subito quale sia la causa, per poi procedere con trattamenti farmacologici, ma anche con procedure che possono essere messe in atto. Penso ad esempio alla “PENS”, che è l’elettrostimolazione percutanea dei nervi periferici, che ci permette di avere buone risposte su queste sensazioni fastidiose nevralgiche che possono insorgere ad esempio, dopo un intervento chirurgico (utilizzo di divaricatore), in caso di cicatrici dolorose, a seguito di Herpes e così via.

E’ vero che i fumatori che vengono nel suo studio hanno più limiti nel ricevere benefici legati a trattamenti sia di tipo anestesiologico che di tipo antalgico?

“Il fumatore in senso assoluto è un soggetto che si espone a un rischio maggiore perché dal punto di vista respiratorio principalmente, ma anche cardiocircolatorio, ci sono delle ripercussioni, soprattutto nel forte fumatore; quindi, più che da un punto di vista di terapia del dolore è un problema che magari possiamo riscontrare nell’ambito anestesiologico, perché spesso ci sono delle ripercussioni respiratorie importanti, quindi delle patologie conseguenti all’abitudine tabagica, che poi hanno un impatto sul decorso clinico del paziente”.

Morfina, cortisone e ozono sono nemici o alleati del paziente?

Dottoressa parliamo di morfina, cortisone e ozono. Non è che la morfina sia il diavolo in persona, il cortisone la panacea di tutti i mali e l’ozono un palliativo. Ci fa capire l’importanza di queste sostanze nella terapia del dolore?

“Mi fa piacere questa domanda perché spesso quando spiego ai pazienti la terapia farmacologica che imposto e che spesso utilizza farmaci come appunto la morfina o derivati, il paziente ha un sobbalzo, sgrana gli occhi e mi dice “… dottoressa, quindi sto male, sto morendo…”. Non è assolutamente così: è che molte volte l’intensità del dolore è talmente elevata che è necessario utilizzare farmaci di adeguata potenza. Diciamo che gli oppiacei, il cortisone o l’ozono sono validissimi strumenti di cura, che vanno scelti in maniera appropriata, a seconda del problema. Non è la perfezione uno e il diavolo l’altro: se esistesse una sostanza in grado di risolvere tutti i problemi oggi non ne staremmo certamente parlando. Si tratta di tre utili strumenti che vengono applicati in condizioni adeguate e quando utilizzati a ragion veduta danno dei buoni risultati. A volte uno può sostituire l’altro, in particolar modo mi riferisco all’ozono nei confronti del cortisone e viceversa a seconda del quadro clinico e di eventuali limitazioni terapeutiche. Non tutti i pazienti possono essere sottoposti allo stesso tipo di trattamento per tante ragioni: ci sono delle condizioni nelle quali ad esempio l’ozono non può essere utilizzato o viceversa quelle condizioni in cui il cortisone ci pone dei limiti; avere una valida alternativa secondo me è un opportunità estremamente utile per poter portare avanti un percorso di cura adeguato”.

La morfina, però, è un antidolorifico, mentre il cortisone e l’ozono sono degli antinfiammatori, quindi, rispetto alla morfina, possono agire anche sulla causa del dolore e non solo sulla sintomatologia.

“Certamente. Quando la fonte del dolore è sostenuta da un processo infiammatorio hanno un impatto importante da questo punto di vista”. In modo particolare l’ozono che trova il suo impiego in moltissimi modi e, in ambito ospedaliero, può garantire ad esempio nell’ernia del disco una netta riduzione volumetrica.

Quali sono le controindicazioni del cortisone?

“Ci possono essere delle condizioni cliniche che ne limitano l’utilizzo: il malato affetto da osteoporosi molto grave, ad esempio, perché il cortisone ha un impatto sull’osso; il malato che ha un quadro cardiaco scompensato, perché il cortisone può determinare squilibri pressori importanti; non possono usarlo, se non in dosi leggere, i pazienti diabetici; sono svariate le condizioni in cui bisogna stare attenti all’utilizzo del cortisone in termini di dosaggio, ma anche di durata. Spesso, purtroppo, le patologie che noi trattiamo richiedono dei trattamenti abbastanza lunghi nel tempo; insomma, si tratta di un farmaco che può avere una serie di ripercussioni di cui bisogna tenere conto. Ciò non vuole dire che non si possa usare in senso assoluto, ma ci sono delle condizioni in cui è fondamentale il suo utilizzo e porta degli ottimi risultati però bisogna essere consapevoli che non in tutti i pazienti può essere usato con tanta facilità”.

E il trattamento con l’ozono invece quanto tempo richiede? Quanto durano i trattamenti? Ci sono controindicazioni?

“L’ozono richiedere tempo. Ci sono tanti pazienti che già dalle prime sedute hanno delle ottime risposte, però mediamente i primi risultati arrivano un pochino più diluiti nel tempo, quindi è un trattamento che richiede diverse sedute. Per gestire una fase acuta di dolore le sedute sono abbastanza ravvicinate nel tempo, ma è importante prendere poi in considerazione il percorso di mantenimento. L’ozono, non avendo effetti collaterali, ci permette di essere usato nel tempo e quindi di mantenere il risultato ottenuto”.

Quante sono teoricamente le sedute ai quali i pazienti vengono sottoposti? Ci sono poi altri percorsi legati alla terapia del dolore che si possono inserire in un trattamento già stabilito piuttosto che in un altro?

“Mediamente, in un evento acuto parliamo di 10-12 sedute che vengono fatte a distanza abbastanza ravvicinata, circa due alla settimana. Io, ovviamente, occupandomi di terapia del dolore posso offrire diversi percorsi, quindi se ho identificato l’ozono come scelta iniziale ma, a un certo punto, non ci dà il risultato atteso, abitualmente sono la prima a interrompere il trattamento, indirizzando il paziente verso altre opzioni di cura per arrivare al risultato che ci siamo prefissati”.

A cura di Lorenzo Chierici
Ufficio Stampa 3C Salute